La disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persona giuridiche, contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2001 ha costituito una delle più importanti e profonde innovazioni del nostro sistema “sanzionatorio”, con la quale si è introdotto un nuovo paradigma, segnando una svolta radicale con una tradizione che considerava la persona fisica quale unico destinatario della sanzione punitiva. Il contributo fornisce - a pochi mesi dalla novella – una penetrante analisi della portata sistematica della nuova disciplina. Prendendo le mosse dai contributi dottrinali che hanno assunto (almeno in ambito nazionale) portata pionieristica (Bricola; Marinucci), nonché delle esperienze in materia dei paesi di common law, l’Autore offre una sintetica quanto incisiva ricostruzione delle “ragioni” militanti a favore di un coinvolgimento dell’ente nelle vicende punitive (la patologia dell’impresa lecita quale naturale contesto della criminalità economica, la peculiare caratterizzazione oggettiva e soggettiva dei reati commessi in seno all’organizzazione; la fluidità della componente umana dell’impresa): tali ragioni invero, filtrando in modo inespresso nel diritto penale degli individui finiscono per generare effetti distorsivi sul piano del principio di personalità senza peraltro offrire risultati degni di nota sul piano dell’efficace tutela dei beni giuridici. A fronte delle esigenze della prassi non possono che cedere le - confutabili -obiezioni di ordine dogmatico. Gli enti erano già prima della riforma, d’altro canto, destinatari di sanzioni del tutto simili a quelle conosciute nel sistema penale, seppure con varia nomenclatura e classificazione. Se si parte dall’incontestabile premessa del ruolo attivo e autonomo (oltre che gigantesco) che le persone giuridiche economiche svolgono nella realtà odierna non vi sono obiezioni di carattere logico o di altra natura a riconoscere anche una loro assoggettabilità a sanzione. L’Autore peraltro esprime qualche perplessità circa la percorribilità di un modello punitivo schiettamente penale, del quale si ritiene inconciliabile con l’ente il necessario finalismo rieducativo, che esige sempre di confrontarsi con una personalità strutturata, con una storia di vita reale. Dopo una ricognizione delle iniziative europee e dei precedenti immediati alla normativa in commento (in primis il Progetto Grosso) la trattazione prosegue con un tratteggio degli aspetti fondamentali della disciplina (e segnatamente dei criteri di imputazione). Ai “modelli di organizzazione e di gestione”, espressamente ispirati ai compliance programs statunitensi, è attribuita dal Legislatore delegato rilevanza sia sul piano dell’imputazione (secondo i ben noti meccanismi differenziati sulla base della natura apicale o meno del soggetto agente) quanto su quello della commisurazione, sancendone la significatività quali elementi espressivi di una colpa di organizzazione, che si vuole autonoma e sganciata da quella dell’autore del fatto, la cui regola di diligenza è orientata alla prevenzione dei reati che possono essere commessi nell’interesse o a vantaggio dell’impresa. L’autore si sofferma, infine, sul problema della natura della responsabilità introdotta con il decreto in discussione: a fronte dell’espressa qualificazione come “amministrativa” si è denunciata, da una parte della dottrina, una supposta “truffa delle etichette”, considerandosi la disciplina introdotta come penale a tutti gli effetti. La conclusione alla quale si approda, dopo un’accurata ricostruzione degli elementi militanti a favore dell’una e dell’altra qualificazione, è quella dell’inutilità della discussione sulle etichette: i due modelli - amministrativo e penale - parrebbero, in quanto tali, sostanzialmente inadeguati a ricevere l’innesto della nuova disciplina
Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina
ALESSANDRI, ALBERTO
2002
Abstract
La disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persona giuridiche, contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2001 ha costituito una delle più importanti e profonde innovazioni del nostro sistema “sanzionatorio”, con la quale si è introdotto un nuovo paradigma, segnando una svolta radicale con una tradizione che considerava la persona fisica quale unico destinatario della sanzione punitiva. Il contributo fornisce - a pochi mesi dalla novella – una penetrante analisi della portata sistematica della nuova disciplina. Prendendo le mosse dai contributi dottrinali che hanno assunto (almeno in ambito nazionale) portata pionieristica (Bricola; Marinucci), nonché delle esperienze in materia dei paesi di common law, l’Autore offre una sintetica quanto incisiva ricostruzione delle “ragioni” militanti a favore di un coinvolgimento dell’ente nelle vicende punitive (la patologia dell’impresa lecita quale naturale contesto della criminalità economica, la peculiare caratterizzazione oggettiva e soggettiva dei reati commessi in seno all’organizzazione; la fluidità della componente umana dell’impresa): tali ragioni invero, filtrando in modo inespresso nel diritto penale degli individui finiscono per generare effetti distorsivi sul piano del principio di personalità senza peraltro offrire risultati degni di nota sul piano dell’efficace tutela dei beni giuridici. A fronte delle esigenze della prassi non possono che cedere le - confutabili -obiezioni di ordine dogmatico. Gli enti erano già prima della riforma, d’altro canto, destinatari di sanzioni del tutto simili a quelle conosciute nel sistema penale, seppure con varia nomenclatura e classificazione. Se si parte dall’incontestabile premessa del ruolo attivo e autonomo (oltre che gigantesco) che le persone giuridiche economiche svolgono nella realtà odierna non vi sono obiezioni di carattere logico o di altra natura a riconoscere anche una loro assoggettabilità a sanzione. L’Autore peraltro esprime qualche perplessità circa la percorribilità di un modello punitivo schiettamente penale, del quale si ritiene inconciliabile con l’ente il necessario finalismo rieducativo, che esige sempre di confrontarsi con una personalità strutturata, con una storia di vita reale. Dopo una ricognizione delle iniziative europee e dei precedenti immediati alla normativa in commento (in primis il Progetto Grosso) la trattazione prosegue con un tratteggio degli aspetti fondamentali della disciplina (e segnatamente dei criteri di imputazione). Ai “modelli di organizzazione e di gestione”, espressamente ispirati ai compliance programs statunitensi, è attribuita dal Legislatore delegato rilevanza sia sul piano dell’imputazione (secondo i ben noti meccanismi differenziati sulla base della natura apicale o meno del soggetto agente) quanto su quello della commisurazione, sancendone la significatività quali elementi espressivi di una colpa di organizzazione, che si vuole autonoma e sganciata da quella dell’autore del fatto, la cui regola di diligenza è orientata alla prevenzione dei reati che possono essere commessi nell’interesse o a vantaggio dell’impresa. L’autore si sofferma, infine, sul problema della natura della responsabilità introdotta con il decreto in discussione: a fronte dell’espressa qualificazione come “amministrativa” si è denunciata, da una parte della dottrina, una supposta “truffa delle etichette”, considerandosi la disciplina introdotta come penale a tutti gli effetti. La conclusione alla quale si approda, dopo un’accurata ricostruzione degli elementi militanti a favore dell’una e dell’altra qualificazione, è quella dell’inutilità della discussione sulle etichette: i due modelli - amministrativo e penale - parrebbero, in quanto tali, sostanzialmente inadeguati a ricevere l’innesto della nuova disciplinaI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.