Quale è il peso delle multinazionali in Italia? Quale è l’importanza dello Stato e degli enti locali, o meglio dalle imprese da questi controllate, dopo il processo di privatizzazione avviato nel 1992 e tuttora in corso? Le banche in seguito alla emanazione del Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia del 27 agosto 1993 possono partecipare, entro certi limiti, al capitale di rischio delle imprese industriali; fino a che punto hanno approfittato di questa opportunità? Quali sono le principali differenze in termini di assetto proprietario tra le grandi imprese italiane ed i grandi gruppi di altri Paesi? Il presente contributo intende dare una risposta a questi e ad altri interrogativi riguardanti la presenza ed il peso di differenti forme di assetto proprietario (famigliare, multinazionale, a controllo statale, etc.) all’interno del nostro Paese. L’ipotesi alla base dello scritto è quella secondo cui l’assetto proprietario di una impresa, o meglio l’assetto istituzionale di questa, è una delle principali variabili in grado di condizionare le funzioni svolte dagli organi di governo, gli obiettivi principali dell’impresa (in termini di redditività, tasso di sviluppo, quota di mercato, etc.), le strategie da questa perseguite ed i risultati ottenuti (intesi come risultati reddituali, competitivi e sociali) (Airoldi, 1998; Zattoni, Ravasi, 1998). Negli ultimi anni il riconoscimento dell’impatto dell’assetto della proprietà e dei meccanismi di governo sulla competitività e la performance delle imprese ha imposto questi temi al centro del dibattito, non solo in ambito accademico. L’intensificarsi della competizione a livello internazionale ha portato poi alcuni ricercatori a focalizzare la loro attenzione sull’impatto che le forme di proprietà e di controllo tipiche di un determinato Paese generano sulla competitività dei diversi sistemi economici (Porter, 1990; Chandler 1990; Airoldi, 1993; Albert, 1993; Charkham, 1994; etc.). Fino ad oggi gli studi sulla Corporate Governance si sono limitati a considerare un modello di assetto istituzionale di impresa come tipico di ogni singolo Paese (nei Paesi anglosassoni la public company, in Germania e Giappone il gruppo misto industriale e finanziario, etc.) nell’ipotesi che questo modello sia emblematico del funzionamento della totalità delle imprese all’interno dello stesso sistema economico. Tale lavoro è stato sicuramente importante perché ha dimostrato che il sistema Paese (la normativa economica, la cultura, le tradizioni, etc.) in cui operano le imprese condiziona fortemente il loro assetto istituzionale, tuttavia non ha valutato e non ha fatto emergere la varietà di situazioni e di tipi di imprese che operano all’interno dello stesso ambiente. In Italia, una concomitanza di situazioni (l’accelerazione del processo di privatizzazione, le gravi crisi finanziarie che hanno colpito alcuni gruppi privati di grandi dimensioni, il recente intervento normativo che ha concesso agli intermediari finanziari la possibilità di detenere partecipazioni azionarie in aziende industriali, etc.) ha contribuito ulteriormente a spingere accademici di varie discipline - aziendalisti (Airoldi, Amatori, Invernizzi, 1995; Molteni, 1996; etc.), giuristi (Marchetti, 1995; Preite, Magnani, 1994; etc.) ed economisti (Prodi, 1991; Bianco, Casavola, 1996) - uomini d’affari ed esponenti politici ad intensificare i progetti di studio sulle tematiche del governo dell’impresa, al fine di generare proposte di cambiamento da valutare successivamente in sede legislativa. Presupposto indispensabile per la generazione di proposte di intervento a livello sia di sistema Paese, sia di singola impresa, è comunque una chiara e quanto più possibile ricca rappresentazione dell’articolazione degli assetti proprietari e delle forme di controllo delle imprese operanti in Italia, e delle tendenze in atto. Questo contributo vuole rappresentare un primo passo in questa direzione; l’obiettivo è quello di descrivere le forme di assetto proprietario che caratterizzano le grandi imprese italiane e di misurare il loro peso e la loro diffusione settoriale. Per raggiungere tale scopo, abbiamo dapprima definito una tipologia di forme di controllo (famigliare, multinazionale estera, Stato o enti locali, consorzi e cooperative, etc.) sulla base di alcuni attributi dell’assetto proprietario di una impresa (principalmente la distribuzione delle quote di capitale di rischio e la natura degli azionisti). Successivamente abbiamo utilizzato tale tipologia per classificare tutte le grandi imprese ed i grandi gruppi operanti nel nostro Paese. Infine, ci siamo posti l'obiettivo di comprendere le specificità dell'assetto proprietario delle grandi imprese e dei grandi gruppi italiani facendo un confronto con le imprese di un Paese europeo avente caratteristiche economiche simili al nostro.
Grandi imprese e grandi gruppi in Italia
ZATTONI, ALESSANDRO;RAVASI, DAVIDE
2000
Abstract
Quale è il peso delle multinazionali in Italia? Quale è l’importanza dello Stato e degli enti locali, o meglio dalle imprese da questi controllate, dopo il processo di privatizzazione avviato nel 1992 e tuttora in corso? Le banche in seguito alla emanazione del Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia del 27 agosto 1993 possono partecipare, entro certi limiti, al capitale di rischio delle imprese industriali; fino a che punto hanno approfittato di questa opportunità? Quali sono le principali differenze in termini di assetto proprietario tra le grandi imprese italiane ed i grandi gruppi di altri Paesi? Il presente contributo intende dare una risposta a questi e ad altri interrogativi riguardanti la presenza ed il peso di differenti forme di assetto proprietario (famigliare, multinazionale, a controllo statale, etc.) all’interno del nostro Paese. L’ipotesi alla base dello scritto è quella secondo cui l’assetto proprietario di una impresa, o meglio l’assetto istituzionale di questa, è una delle principali variabili in grado di condizionare le funzioni svolte dagli organi di governo, gli obiettivi principali dell’impresa (in termini di redditività, tasso di sviluppo, quota di mercato, etc.), le strategie da questa perseguite ed i risultati ottenuti (intesi come risultati reddituali, competitivi e sociali) (Airoldi, 1998; Zattoni, Ravasi, 1998). Negli ultimi anni il riconoscimento dell’impatto dell’assetto della proprietà e dei meccanismi di governo sulla competitività e la performance delle imprese ha imposto questi temi al centro del dibattito, non solo in ambito accademico. L’intensificarsi della competizione a livello internazionale ha portato poi alcuni ricercatori a focalizzare la loro attenzione sull’impatto che le forme di proprietà e di controllo tipiche di un determinato Paese generano sulla competitività dei diversi sistemi economici (Porter, 1990; Chandler 1990; Airoldi, 1993; Albert, 1993; Charkham, 1994; etc.). Fino ad oggi gli studi sulla Corporate Governance si sono limitati a considerare un modello di assetto istituzionale di impresa come tipico di ogni singolo Paese (nei Paesi anglosassoni la public company, in Germania e Giappone il gruppo misto industriale e finanziario, etc.) nell’ipotesi che questo modello sia emblematico del funzionamento della totalità delle imprese all’interno dello stesso sistema economico. Tale lavoro è stato sicuramente importante perché ha dimostrato che il sistema Paese (la normativa economica, la cultura, le tradizioni, etc.) in cui operano le imprese condiziona fortemente il loro assetto istituzionale, tuttavia non ha valutato e non ha fatto emergere la varietà di situazioni e di tipi di imprese che operano all’interno dello stesso ambiente. In Italia, una concomitanza di situazioni (l’accelerazione del processo di privatizzazione, le gravi crisi finanziarie che hanno colpito alcuni gruppi privati di grandi dimensioni, il recente intervento normativo che ha concesso agli intermediari finanziari la possibilità di detenere partecipazioni azionarie in aziende industriali, etc.) ha contribuito ulteriormente a spingere accademici di varie discipline - aziendalisti (Airoldi, Amatori, Invernizzi, 1995; Molteni, 1996; etc.), giuristi (Marchetti, 1995; Preite, Magnani, 1994; etc.) ed economisti (Prodi, 1991; Bianco, Casavola, 1996) - uomini d’affari ed esponenti politici ad intensificare i progetti di studio sulle tematiche del governo dell’impresa, al fine di generare proposte di cambiamento da valutare successivamente in sede legislativa. Presupposto indispensabile per la generazione di proposte di intervento a livello sia di sistema Paese, sia di singola impresa, è comunque una chiara e quanto più possibile ricca rappresentazione dell’articolazione degli assetti proprietari e delle forme di controllo delle imprese operanti in Italia, e delle tendenze in atto. Questo contributo vuole rappresentare un primo passo in questa direzione; l’obiettivo è quello di descrivere le forme di assetto proprietario che caratterizzano le grandi imprese italiane e di misurare il loro peso e la loro diffusione settoriale. Per raggiungere tale scopo, abbiamo dapprima definito una tipologia di forme di controllo (famigliare, multinazionale estera, Stato o enti locali, consorzi e cooperative, etc.) sulla base di alcuni attributi dell’assetto proprietario di una impresa (principalmente la distribuzione delle quote di capitale di rischio e la natura degli azionisti). Successivamente abbiamo utilizzato tale tipologia per classificare tutte le grandi imprese ed i grandi gruppi operanti nel nostro Paese. Infine, ci siamo posti l'obiettivo di comprendere le specificità dell'assetto proprietario delle grandi imprese e dei grandi gruppi italiani facendo un confronto con le imprese di un Paese europeo avente caratteristiche economiche simili al nostro.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.