Di lavoro si parla male. Le parole che si affastellano sempre più velocemente sono prevalentemente antagoniste e decresciste. E il costrutto delle così dette ‘grandi dimissioni’ non fa eccezione. Indipendentemente da cosa i dati mostrano e talvolta indipendentemente pure dall’esistenza di dati, si è costruito un linguaggio intenzionalmente teso a rafforzare una retorica anti-lavoro di cui il mito della fuga è solo l’ultima espressione. Se partiamo dai dati, si rileva che in Italia nel 2021 si è registrata una crescita del numero di dimissioni volontarie. Si tratta, però, di un aumento molto contenuto e si sostanzia principalmente di transizioni da un lavoro all’altro e non di uscite dal mondo del lavoro. Peraltro, questo aumento dei cambiamenti di lavoro rispetto allo stesso periodo del 2019 potrebbe anche solo essere una compensazione del mancato dinamismo del periodo pandemico. Ma, se pure il trend si stabilizzasse, saremmo in presenza di un fenomeno di portata molto ridotta rispetto a quanto aneddoticamente vogliamo raccontarci e che non riguarderebbe l’uscita dal lavoro ma, appunto, i cambiamenti. Non abbiamo, invece, proprio nessun dato che riguardi il contenuto del lavoro che le persone lasciano e di quello che intraprendono. Né c’è alcun dato sulle motivazioni alla base di questa scelta. Sicché, a voler formulare congetture attenendosi al principio di razionalità, le transizioni volontarie si dovrebbero ascrivere al desiderio di un lavoro migliore. Si è, però, voluto completare quello che i dati non dicono con una ‘narrazione’. E la narrazione, in sostanza, ruota intorno a un messaggio univoco: le persone lasciano il lavoro; lo lasciano perché sono cambiate le loro aspirazioni; e vogliono ora rifugiarsi in una nuova Arcadia alla ricerca di un migliore equilibrio di vita, in cui il lavoro va minimizzato il più possibile.
Le grandi dimissioni come nuova leva della retorica anti-lavoro
Cappetta, Rossella;Del Conte, Maurizio
2022
Abstract
Di lavoro si parla male. Le parole che si affastellano sempre più velocemente sono prevalentemente antagoniste e decresciste. E il costrutto delle così dette ‘grandi dimissioni’ non fa eccezione. Indipendentemente da cosa i dati mostrano e talvolta indipendentemente pure dall’esistenza di dati, si è costruito un linguaggio intenzionalmente teso a rafforzare una retorica anti-lavoro di cui il mito della fuga è solo l’ultima espressione. Se partiamo dai dati, si rileva che in Italia nel 2021 si è registrata una crescita del numero di dimissioni volontarie. Si tratta, però, di un aumento molto contenuto e si sostanzia principalmente di transizioni da un lavoro all’altro e non di uscite dal mondo del lavoro. Peraltro, questo aumento dei cambiamenti di lavoro rispetto allo stesso periodo del 2019 potrebbe anche solo essere una compensazione del mancato dinamismo del periodo pandemico. Ma, se pure il trend si stabilizzasse, saremmo in presenza di un fenomeno di portata molto ridotta rispetto a quanto aneddoticamente vogliamo raccontarci e che non riguarderebbe l’uscita dal lavoro ma, appunto, i cambiamenti. Non abbiamo, invece, proprio nessun dato che riguardi il contenuto del lavoro che le persone lasciano e di quello che intraprendono. Né c’è alcun dato sulle motivazioni alla base di questa scelta. Sicché, a voler formulare congetture attenendosi al principio di razionalità, le transizioni volontarie si dovrebbero ascrivere al desiderio di un lavoro migliore. Si è, però, voluto completare quello che i dati non dicono con una ‘narrazione’. E la narrazione, in sostanza, ruota intorno a un messaggio univoco: le persone lasciano il lavoro; lo lasciano perché sono cambiate le loro aspirazioni; e vogliono ora rifugiarsi in una nuova Arcadia alla ricerca di un migliore equilibrio di vita, in cui il lavoro va minimizzato il più possibile.File | Dimensione | Formato | |
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