Da tempo si discute se, ed entro che limiti, la giurisprudenza possa essere considerata una vera e propria fonte del diritto in un ordinamento in cui, per espresso vincolo costituzionale, il giudice è soggetto “solo” alla legge. Il presente contributo si accosta alla vexata quaestio dalla peculiare prospettiva della Corte costituzionale, le cui decisioni mostrano – al di là delle dichiarazioni di principio – di prendere assai sul serio il diritto giurisprudenziale, sia esso rappresentato dai propri precedenti, ovvero dal c.d. “diritto vivente” espresso dalla giurisprudenza comune, o ancora dagli orientamenti interpretativi delle Corti europee. Anche la giurisprudenza costituzionale, come quella di molti altri settori dell’ordinamento, restituisce così la prospettiva di un ruolo autenticamente “con-formativo” del diritto svolto dai precedenti giudiziari, negli spazi che le fonti normative interpretate lasciano aperti; un ruolo che si attua, a ben guardare, mediante la formulazione di “norme” generali e astratte, destinate a regolare classi più specifiche di sotto-fattispecie rispetto alle più generali fattispecie previste dal legislatore (ordinario o costituzionale). Una tale constatazione non significa affatto che la giurisprudenza possa formulare “norme” incompatibili con il testo della legge, a un simile esito ostando il principio della supremazia gerarchica della legge (e naturalmente della stessa Costituzione) sul diritto giurisprudenziale; ma implica, questo sì, la necessità che tutti coloro che esercitano una funzione giurisdizionale siano consapevoli – persino in materie dominate da una stretta riserva di legge, come il diritto penale – della realtà del “diritto giurisprudenziale”, e della sua essenziale funzione di garanzia di prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Garanzia, quest’ultima, che è a sua volta condizione per un’applicazione uniforme delle norme, in ossequio tra l’altro al principio costituzionale di eguaglianza.
Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale
Vigano', Francesco
2021
Abstract
Da tempo si discute se, ed entro che limiti, la giurisprudenza possa essere considerata una vera e propria fonte del diritto in un ordinamento in cui, per espresso vincolo costituzionale, il giudice è soggetto “solo” alla legge. Il presente contributo si accosta alla vexata quaestio dalla peculiare prospettiva della Corte costituzionale, le cui decisioni mostrano – al di là delle dichiarazioni di principio – di prendere assai sul serio il diritto giurisprudenziale, sia esso rappresentato dai propri precedenti, ovvero dal c.d. “diritto vivente” espresso dalla giurisprudenza comune, o ancora dagli orientamenti interpretativi delle Corti europee. Anche la giurisprudenza costituzionale, come quella di molti altri settori dell’ordinamento, restituisce così la prospettiva di un ruolo autenticamente “con-formativo” del diritto svolto dai precedenti giudiziari, negli spazi che le fonti normative interpretate lasciano aperti; un ruolo che si attua, a ben guardare, mediante la formulazione di “norme” generali e astratte, destinate a regolare classi più specifiche di sotto-fattispecie rispetto alle più generali fattispecie previste dal legislatore (ordinario o costituzionale). Una tale constatazione non significa affatto che la giurisprudenza possa formulare “norme” incompatibili con il testo della legge, a un simile esito ostando il principio della supremazia gerarchica della legge (e naturalmente della stessa Costituzione) sul diritto giurisprudenziale; ma implica, questo sì, la necessità che tutti coloro che esercitano una funzione giurisdizionale siano consapevoli – persino in materie dominate da una stretta riserva di legge, come il diritto penale – della realtà del “diritto giurisprudenziale”, e della sua essenziale funzione di garanzia di prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Garanzia, quest’ultima, che è a sua volta condizione per un’applicazione uniforme delle norme, in ossequio tra l’altro al principio costituzionale di eguaglianza.File | Dimensione | Formato | |
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